DSEI Benvenuti alla fiera della guerra

DSEI

 

 

pubblicato ottobre 2003 su D La Repubblica delle Donne

Non è diversa da una fiera di giardinaggio, se non fosse che qui non si viene per comprare o per vendere. Ma per incontrarsi, conoscersi, partecipare a conferenze…”. Parola di addetta stampa di Spearhead, l’azienda che col governo inglese organizza il DSEI, Defence Systems and Equipment International: la più grande expo in Europa per il mercato degli armamenti. Quest’anno ha deciso di aprire le porte ai giornalisti, ma la trafila per l’accredito è estenuante. La domanda cruciale è: “Qual è l’interesse della sua testata per la nostra fiera?”. Solo grazie a una mail dove si giura che “dopo l’11 settembre, solo la difesa militare ci fa sentire sicuri”, l’addetta stampa risponde: “Siete i benvenuti”. Per un giorno solo, su quattro di fiera. Conferenze escluse. L’edizione di quest’anno è la più grande della storia del DSEI. 950 imprese per 16 padiglioni nazionali e 80 delegazioni ufficiali in visita. Fra un missile Tomahawk e un elicottero Apache, migliaia di metri quadrati del centro Excel, nella zona dei Docks di Londra, ospitano granate, carrarmati, sistemi informatici: dai simulatori per gli addestramenti ai completi per proteggersi da un attacco batteriologico fino alle portaerei, parcheggiate nel canale fuori dalla fiera. All’Excel l’atmosfera è rilassata e il colpo d’occhio notevole: 20 mila maschi dalla pelle bianca in gessati blu e neri. Abituati a stare tra loro, non si curano della stampa. Del resto i giornalisti accreditati non sono molti, fatti salvi quelli delle riviste specializzate che riconosci dalla valigia con rotelle in cui accumulano cataloghi patinati. Dai businessmen prima parte un’occhiata diffidente, poi arrivano subito le battute goliardiche. Idwal Jones è un commesso viaggiatore del colosso EADS: “Speriamo di fare buoni affari”, dichiara. E aggiunge: “Invece di girare come una trottola per il pianeta, basta venire qui per concludere eccellenti contratti”. Gioviale, il suo collega Derfel Williams racconta: “Siamo una multinazionale europea: Francia, Germania, Spagna, Inghilterra e anche Italia: abbiamo unito le forze per battere gli Stati Uniti”. Più discreto il pierre: “Forniamo sistemi di difesa integrati e su misura. Avversari? Non ne abbiamo: una volta siamo alleati, una volta in competizione. Con un solo obiettivo: soddisfare le richieste del cliente”. Il cliente sono i governi di tutto il pianeta, invitati al DSEI dal Ministero della Difesa inglese. Secondo il Caat, la Campagna contro il commercio delle armi, della lista fanno parte anche Paesi teatro di guerre civili sanguinose o stigmatizzati per violazioni dei diritti umani. Ci sono Indonesia e Turchia, Cina e Congo, Colombia, Israele, Arabia Saudita. Anche l’Europa s’è desta, spiega Ida De Mari, rappresentante DSEI per l’Italia: “Una collaborazione così stretta non c’è mai stata prima: direi che l’Unione europea è iniziata dalla difesa”. De Mari elenca anche la lista dei componenti della delegazione italiana, guidata dal sottosegretario Berselli: l’organizzazione avrebbe voluto tenerla segreta. “La globalizzazione è arrivata anche nel nostro mestiere”, dice, “perché i settori ricerca e sviluppo sono costosi, e allora l’unione fa la forza”. Ma è vero che al DSEI non si compra? “Si prendono contatti. E se ce n’erano già si sottoscrivono accordi industriali, più che politici”. “Il bello di questa edizione? Mai viste tante delegazioni ufficiali”, racconta il presidente della Marconi Selenia Comunication (Finmeccanica). “Lavoriamo molto in Turchia”, racconta, “e di conseguenza nei Paesi musulmani sui quali la Turchia ha una grande influenza”. Il direttore marketing scende nei particolari: “Parliamo di sistemi di comunicazione tattici, perché oggi la guerra è soprattutto sull’informazione. Non è un caso se la prima cosa che si bombarda sono radio e televisioni”. Allo stand della MKK, azienda di Stato turca per gli armamenti, offrono datteri e pistacchi. Un dirigente si spende per una visita guidata fra granate e mitragliatori. Ma perde le staffe quando chiedo cosa significhi MKK: “Azienda di stato chimica e meccanica”, scandisce. Perché chimica? “Guardi che noi non produciamo armi illegali. Né chimiche, né nucleari, né batteriologiche”. Neculai Iancu lavora invece per la ROMARM, azienda di stato romena per gli armamenti. In un inglese stentato, racconta di nutrire grandi speranze per questo DSEI: “Siamo in cerca di clienti. Il nostro Paese attraversa una fase di riforme profonde, e gli affari non vanno bene. Vendiamo in estremo oriente e in Africa, ma vorremmo raggiungere gli standard Nato”. Anche Premjit Singh è venuto in cerca di clienti “da portare in India, dove il mercato delle armi è in massima espansione”. Problemi di vicinato? Scuote la testa e si dà alla geografia: “Pakistan, Cina, Iraq, Iran: li abbiamo tutti attorno. Abbiamo rapporti diplomatici, ma vorremmo diventare amici”. Amici armati? “Sa com’è, dobbiamo proteggere i nostri confini. E se gli altri sanno che sei forte si tengono alla larga”. Non trova imbarazzante incontrare qui il suo collega pakistano? “Può essere un tema per le agende dei governi, non per le nostre. Noi facciamo solo business”. Ha occhiaie profonde Menachem Misgav, dirigente della Israel Military Industry. Sorvegliato a vista dagli agenti di sicurezza, racconta secco: “Sperimentiamo le nostre armi in collaborazione con l’esercito israeliano, che le utilizza quotidianamente”. Gli stand delle grandi imprese sono imponenti: musica, hostess, bar. E salotti discreti dove incontrare le delegazioni dei governi mondiali. Uno degli stand è dominato da un’immagine degli scontri al G8 di Genova, luglio 2001. Mark Van den Broeck, comunication manager della azienda belga FN Herstal descrive il suo prodotto di punta: si chiama FN 303 e lancia pallottole di plexiglas riempite di bismuto, vernice e gas irritante. “Insomma, il nostro prodotto consente di fermare i manifestanti: così almeno per un po’ smetteranno di protestare”. L’organizzazione aveva chiesto agli espositori di non portare “cluster bombs”, perché “in Europa c’è grande trasporto emotivo per le conseguenze di queste armi”, spiega Paul Beavea, portavoce della Spearhead. Le cluster bombs sono bombe che ne contengono molte altre e spesso non esplodono. Sono i bambini a raccoglierle e secondo l’Unicef mille sono stati feriti solo dall’inizio della guerra in Iraq. Allo stand della RUAG, azienda di Stato svizzera per gli armamenti e leader mondiale per le cluster bombs, Benjamin Miller non nasconde il disappunto e passa alla delazione: “Noi non le abbiamo portate. Ma se ne vuole vedere una chieda pure ai turchi”. Torniamo allo stand della MKK, ma il delegato rifiuta di rispondere. Poco male. L’inviato del quotidiano inglese The Guardian, Richard Norton-Taylor, trova le cluster bombs nel catalogo dell’impresa di Stato israeliana. Ora si chiamano “cargo ammunition” e l’Inghilterra ne avrebbe usate parecchie in Iraq. Secondo il Ministero della difesa britannico “sono le migliori: solo il 2 per cento non esplode, contro il 5 per cento di quelle tradizionali”. A tutti chiediamo: è vero che dopo l’11 settembre gli affari sono aumentati? E come un sol uomo, tutti rispondono: “Assolutamente no”. Poi, piano piano, Ida De Mari è la prima ad ammettere: “Beh, c’è stata una lieve ripresa”. Gli altri ci arrivano per sofismi: “Se ci sono tante delegazioni in visita è perché l’allarme terrorismo ha fatto crescere l’interesse per la difesa”, concedono. E se la sera dell’11 settembre scorso i vip del DSEI si sono trovati per una cena di gala, “la scelta della data è stata del tutto casuale”, assicura Alan Sharman, a capo della Defence Manufacturers Association, l’associazione di categoria dei mercanti inglesi. E d’altronde, dice: “Una cena di gala per una fiera di armi non ha niente di diverso da una cena di gala per una fiera di barche o di motori”.

DIDASCALIA/ proteste

Pochi manifestanti molto colorati, hanno tentato di disturbare il DSEi. 150 sono stati arrestati, in parte in base alla recente legge anti terrorismo. L’associazione per i diritti civili Liberty ha vinto un ricorso urgente alla Corte suprema inglese: secondo i giudici, il ricorso alla legislazione d’emergenza è stato “illecito e sproporzionato”.

BOX/numeri

Secondo Amnesty International, “almeno due terzi di tutte le armi vendute fra il 1997 e il 2001” sono state prodotte da stati membri del G8. Guidano la classifica gli Stati Uniti, che detengono circa il 28 per cento del commercio mondiale. Seguono la Russia (17 per cento), la Francia (10), l’Inghilterra (7) e la Germania (5 per cento).

BOX /Taser

Manganelli, pinze e pistole per l’elettrochoc. Si chiamano Taser e sono “armi meno che letali”, ovvero non sono fabbricate per uccidere. Sono da alcuni anni in dotazione dei reparti speciali d’intervento della polizia americana, da un anno in sperimentazione in Inghilterra e dalla scorsa estate in uso anche in Svizzera. Servono ad immobilizzare una persona, senza doversi avvicinare troppo. Le Taser trasmettono una scarica elettrica di 50mila volts che dura cinque secondi. La persona colpita cade immediatamente a terra e spesso perde i sensi. Sul sito www.taser.com, ci sono i video dei test effettuati su volontari. Secondo Amnesty International, dagli anni novanta i dispositivi per l’elettrochoc sono in uso in almeno 76 paesi al mondo. Come strumenti di tortura. (ST)


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